Vi propongo oggi un articolo di Antonio Cilardo (Il blog dell'uomo qualunque), sulla socialdemocrazia europea. Ritengo questo articolo (qui l'originale) molto interessante e degno di una lettura approfondita.
Gli ultimi venticinque anni sono stati segnati dall’affermazione, nel mondo intero, del pensiero politico liberale. Attualmente quasi nessuno, nel nostro paese come nel resto d’Occidente, mette in discussione il capitalismo e l’economia di mercato, oppure l’idea che le attività produttive non debbano essere pianificate dallo Stato ma demandate in larghissima misura all’iniziativa economica privata. Esistono, però, diverse concezioni del capitalismo: alcune estreme, altre più morbide. La socialdemocrazia, nel secolo scorso, ha proposto con successo una versione temperata del capitalismo, capace di coniugare il diritto dei privati a creare ricchezza con le istanze di equilibrio e giustizia sociale.Ritengo il discorso sulla socialdemocrazia di primaria importanza per uscire dall'eterno e stupido dualismo "capitalismo-comunismo". Nelle prossime puntate parlerò degli esempi di socialdemocrazia europea, ai quali il nostro paese deve tendere, come la Svezia, la Norvegia e gli altri paesi nordici.E’ questo il tema portante di The primacy of politics – Social democracy and the making of Europe’s twentieth, un volume di Sheri Barman, ricercatrice presso la Columbia university, non ancora tradotto in italiano e pubblicato nel 2006 dall’università di Cambridge. L’autrice smentisce la convinzione che il Novecento abbia registrato lo scontro tra un modello politico liberale, fondato sull’economia di mercato e la completa libertà dell’iniziativa privata, e il modello politico autoritario e centralizzato dei regimi totalitari di destra e di sinistra (nazismo, fascismo, comunismo).
A vincere questa battaglia, infatti, non è stato il liberalismo di stampo ottocentesco, ispirato alla filosofia del laissez faire, ma un modello terzo, meno estremo, che attribuiva allo Stato il ruolo di armonizzare l’iniziativa dei privati e correggere i difetti del mercato. A vincere la battaglia del Novecento, secondo l’autrice, è stata la socialdemocrazia: non mera variante del liberalismo ma modello politico autonomo che, all’indomani della seconda guerra mondiale, ha accompagnato la ricostruzione dell’Europa occidentale con una sua concezione dei rapporti tra stato, mercato e società. In alternativa al nazifascismo la socialdemocrazia rifiuta la violenza e l’autoritarismo; in alternativa al marxismo e al liberalismo ortodosso, invece, la socialdemocrazia nega che l’economia sia la forza trainante della storia, ribadendo il primato della politica e del senso comunitario, nonché dell’azione collettiva sull’azione individuale.
Secondo l’autrice la socialdemocrazia è stata l’ideologia di maggior successo del secolo scorso; ha contribuito all’evoluzione del sistema liberale in un’epoca, quella a cavallo tra le guerre mondiali, in cui l’offensiva dei regimi totalitari si faceva temibile e minacciava di stringere l’Europa come una tenaglia. Dimostrazione della grande flessibilità di quel sistema politico ed economico; capace, a differenza dei sistemi autoritari, di aggiornarsi e introiettare correttivi provenienti sia dall’interno che dall’esterno.
Una flessibilità che l’autrice non ritrova in molti dei fautori attuali del pensiero liberale, troppo rigidi: il liberalismo è la chiave di lettura più adatta per capire la realtà di oggi (non soltanto nel nostro paese: nell’epoca della globalizzazione i vari scenari planetari tendono inevitabilmente a uniformarsi), ma non può essere assolutizzata. Non può assurgere a dogma. Non dobbiamo concludere che il liberalismo sia la forma necessariamente migliore e più giusta, se non addirittura quella naturale, per organizzare la realtà economica e sociale. L’autrice si sofferma anche sul tema della globalizzazione: fenomeno ineluttabile che non va demonizzato ma governato secondo una visione armonica ed equilibrata. Proprio come ha fatto la socialdemocrazia con liberalismo e mercato: stimolare la produzione di ricchezza garantendo un benessere sociale diffuso.
Giorgio La Malfa, dalle colonne del Riformista, ha elogiato l’analisi della Berman, sottolineando però che riproporre su scala globale il compromesso socialdemocratico sarebbe oggi impossibile: le vecchie politiche socialdemocratiche (basate su programmazione, proprietà pubblica, ridistribuzione del reddito) erano fattibili in una fase storica precedente la globalizzazione, quando le barriere che separavano gli stati erano più solide di oggi ed era possibile, per i governi nazionali, controllare in regime di monopolio alcuni settori strategici (come energia e telecomunicazioni) e reinvestire all’interno dei propri confini quanto riscosso attraverso il prelievo fiscale. Si trattava di mungere le mucche senza mangiarle, come affermavano i socialdemocratici svedesi: ma una visione del genere presuppone che le mucche non debbano scappare dal recinto e che vi siano adeguate barriere fisiche e legali.
Barriere che nella società globale sono venute a cadere: ridistribuire il reddito e stimolare la domanda interna, adesso, non significa necessariamente far circolare maggiore ricchezza al proprio interno. Le economie nazionali non possono concepirsi come sistemi chiusi e per un governo di qualsiasi colore è diventato praticamente impossibile non tener conto di ciò che accade a livello globale.
Ci sono addirittura 3 commenti!!
Non ne vedo nel PD un erede
A presto.
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